Giovani e lavoro

 

“Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno non solo gli agricoltori, che consumano lunghe giornate nel coltivare la terra, la quale a volte “produce pruni e spine” (Eb 6,8; cf. Gen 3,18), ma anche i minatori nelle miniere o nelle cave di pietra, i siderurgici accanto ai loro altiforni, gli uomini che lavorano nei cantieri edili e nel settore delle costruzioni in frequente pericolo di vita e di invalidità. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità di decisioni destinate ad avere vasta rilevanza sociale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne, che, talora senza adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell’educazione dei figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini”. (Laborem Exercens, par. 9)

Dal 13 al 15 ottobre si è tenuto a Roma il convegno “Giovani e Lavoro” organizzato dall’ufficio Nazionale CEI per i problemi sociali e il lavoro, in collaborazione col Servizio nazionale per la Pastorale Giovanile e l’Ufficio Nazionale per l’Educazione, la Scuola e l´Università. Lo scopo del convegno era la promozione di uno sguardo educativo sulle giovani donne e giovani uomini in relazione alla loro esperienza lavorativa, per far sì che l’intera comunità dei credenti riconoscano le condizioni di un’intera condizione: riconoscere e nel senso di conoscere nuovamente e nel senso di conoscere con occhi nuovi.

Fondamentale, quindi, la conoscenza della situazione attuale per poter dare una risposta seria e corretta, costruire una mappa di riferimento capace di orientare l’azione nei diversi contesti di vita, di lavoro e di impegno ecclesiale, associativo e sociale; conoscenza non del quadro generale giovani-e-lavoro, ma delle diverse biografie dei giovani lavoratori, biografie che cambiano in base all’età, provenienza geografica, contesto sociale e culturale.

Ma partiamo dai numeri, numeri percepiti, ma che letti fanno davvero paura; in Italia, infatti:

 

  • quasi il 70% dei 25-29enni e il 36%dei 30-34% vive ancora con i genitori
  • la percentuale di 20-24enni nel ruolo di genitori è passato dal 12% del 1983 al 4% nel 2004
  • il 75% dei 15-24enni in Italia dipendono economicamente dai genitori, contro una media europea del 55%. Ciò dipende anche da una occupazione giovanile più bassa, salari più bassi rispetto agli altri grandi paesi europei, affitti onerosi, instabilità lavorativa in crescita, spesa sociale (sul PIL)per i giovani più bassa rispetto agli altri paesi europei
  • la disparità fra le retribuzioni dei 20enni rispetto ai 50enni era del 20% nel 1990, ora è del 33% (gli stagisti vengono poco o per niente retribuiti, non assegnati ad un progetto formativo, e tantomeno finalizzato all’inserimento in azienda)
  • un numero crescente di giovani si sentono costretti ad andare all’estero per essere più valorizzati; o rinunciano ad un lavoro instabile e poco pagato, insufficiente per vivere autonomamente, e rimangono disoccupati nella famiglia di origine.

 

In cosa si traduce tutto ciò? In una condizione di “sofferenza anestetizzata”: l’incertezza è così vasta, è così parte della vita dei giovani lavoratori che, quasi, non si riesce bene a definire la propria situazione di benessere o malessere. Pensate a quanti giovani conoscete che, pur vivendo situazioni lavorative difficili, non se ne lamentano più di tanto perché, tutto sommato, c’è chi sta peggio ed ormai il mondo del lavoro “questo offre”.

Ed è proprio la situazione psicologica a preoccupare maggiormente e a dover essere maggiormente accompagnata: ascolto è, infatti, la parola d’ordine che emerge dal convegno. Ascolto al fine di capire, di guidare, un ascolto che non può ridursi alla compilazione di sondaggi e stime, ma che deve rappresentare un vero rapporto di vicinanza, perché quello a cui stiamo assistendo è un lento scivolamento dei giovani verso il basso, uno scivolamento che, attraverso la perdita di diritti (quelli reali molto spesso non corrispondono a quelli “promessi”), ad una situazione di svantaggio sociale, di sicurezza, di chances, di non sentirsi riconosciuti come risorsa, si abbandono e di solitudine, un sentimento generalizzato di provvisorietà che porta al rischio della perdita della propria identità e progettualità: non esiste più un progetto di vita, una vocazione lavorativa da realizzare, ma un rincorrersi di lavori a termine variegati che mi permettono solo la sussistenza e che, alla fine del contratto, catapultano, spesso, il giovane indietro nel tempo: stessa condizione di partenza, ma con l’età che avanza. Il tutto aggravato e motivato dalla perdita di significato della risorsa “uomo” nel mondo del lavoro: non più una risorsa su cui investire per il futuro (quanti sono i giovani che accedono al mondo del lavoro “stabile” o comunque dignitoso con una sorta di tutor adulti che li guidi? Quante sono le aziende che investono sulla formazione delle giovani leve per garantirsi, nel tempo, lavoratori qualificati e motivati?), ma uno strumento il cui compito è solo quello di produrre, sia che si tratti di beni, sia che si tratti di servizi. Produrre non con qualità e in modo corretto, ma con rapidità.

Molti si chiederanno: e quindi? È stato questo l’ennesimo convegno che ha semplicemente ricordato i “guai” del mondo del lavoro, o ha anche provato a dare risposte?

Ci sentiamo di dire che la risposta è la seconda. La necessità di un nuovo sguardo, un nuovo approccio al problema, la necessità di riposizionare i riflettori non sulla produzione, ma sull’uomo che lavora (“il lavoro per l’uomo e non l’uomo per il lavoro”) rappresentano l’unica soluzione a questa drammatica situazione. Come? Alcuni suggerimenti sono emersi nel corso dei lavori: strategie formative e di accompagnamento (nei progetti orientamento, nella formazione professionale, nella formazione degli apprendisti, in tirocini e negli stages…) in cui si sostengano le ragazze e di ragazzi (ogni ragazza ed ogni ragazzo verrebbe da dire) ad appartenere a se stessi, appartenendo alla realtà “locale” (le sue trame di vita, i suoi servizi, le sue iniziative, le sue interazioni, …) e alla comunità “globale”, mondiale (le sue interconnessioni, la sua visitabilità,i suoi legami possibili, …), assumere la legalità come punto di partenza irrinunciabile, moltiplicare le occasioni di incontro e riflessione comune, sostenere le giovani famiglie.

Una proposta che si fa metodo di lavoro e stile nelle relazioni, sapendo che questo è fatica, impegno, una proposta cui la Chiesa stessa cerca di dare attuazione attraverso il progetto Policoro che, però, (ne è consapevole la stessa CEI) non è esente da limiti, da difficoltà, da esperienze problematiche, molto spesso legate al senso di scoraggiamento se non proprio di impotenza che permea molte nostre comunità. “Ma non possiamo e non vogliamo venire meno alla responsabilità di costruire un futuro diverso per i giovani ed il Mezzogiorno: il progetto Policoro è il rendere visibile una Chiesa che si fa “segno di speranza” per i giovani, per la comunità, per il territorio” (De Rosa), perché, come diceva don Bosco, non è sufficiente amare i giovani: è necessario che si accorgano di essere amati.

Per leggere le relazione del convegno http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new_v3/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=4864 

Il concorso del MLAC “Lavoro e Pastorale”
http://www.azionecattolica.it/aci/MLAC/appuntamenti/810

Luisa Guastafierro

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