L’AC è una fucina di opportunità ed ogni lasciata è persa per chi ha nel cuore la voglia di mettersi in discussione e guardare con curiosità a cosa si cela dietro il confine tra l’essere Giovane e l’essere Adulto. Con questo spirito e una valigia piena di aspettative, ho deciso di accogliere questa sfida, di dare continuità ad un percorso iniziato in parrocchia, con le difficoltà tipiche di un passaggio tribolato ma necessario, e quindi partecipare al mio primo Campo Adulti, non senza il timore di sentirmi fuori posto ed incompresa, come chiunque entri a far parte di una realtà ben consolidata.
Sono bastati pochi minuti dall’inizio dell’esperienza perché ogni aspettativa fosse superata ed ogni timone fosse spazzato via. Affrontare il tema del confine che si fa frontiera, come paradigma della relazione con l’altro, è stato profondamente toccate ed immersivo nel momento in cui ogni confine d’età, di vita, di esperienza, di fede si è fatto frontiera di comunicazione e di accoglienza dell’altro, di chiunque fosse più lontano da noi stessi; l’accortezza e la cura di delineare labili confini tra Adulti e Giovani Adulti ha conferito al campo un caratteristica arricchente unica: quella di un interscambio continuo tra persone della stessa generazione e poi generazioni a confronto, in ascolto reciproco, ciascuna con la curiosità di lasciarsi permeare dai vissuti dell’altro e farne tesoro. Adulti e Giovani Adulti esattamente come uomini e donne che vedono lo stesso mare ma dalla riva opposta, il futuro che guarda con sognante tenerezza un passato che ha ancora tutta la vita per compiersi e un presente che guarda il domani ancora troppo lontano da poterlo vedere realizzato.
È vero quando si dice “non si sceglie il compagno di cordata, ma è la Provvidenza a mettere al nostro fianco l’altro, nella misura in cui ne abbiamo bisogno”. Ed io non avrei potuto desiderare compagni di cordata migliori per scalare questa montagna; per fare esperienza della frontiera come dimensione relazionale ed imparare a stare e sostare nel “tra” di un attraversamento; per vedere sfumarsi i confini giorno dopo giorno e farsi frontiere come luoghi di incontri trasformativi, come quelli indelebili avvenuti durante i gruppi di conversazione spirituale, in cui ognuno ha lasciato cadere ciò che appesantiva il passo e ha ritrovato il coraggio di andare, ritrovando l’essenziale nell’annuncio del Vangelo e imparando ad affidarsi alla volontà di Dio; per riscoprire il primato della vocazione e la necessità di essere sale della terra nella nostra realtà quotidiana; per far tesoro delle parole di ciascuno e lasciarsi attraversare.
È stata dura arrivare alla vetta come dura è raggiungere la consapevolezza di essere chiamati ad aver coraggio per una AC che sia al servizio della comunità; un coraggio che ha un peso ed è quello della responsabilità di essere credenti credibili ogni giorno e costruite ponti con i mattoni che abbiamo ricevuto in dono, del sacrificio di compiere scelte non di comodo ma agire in modo autentico e sovversivo, del contagio come capacità di contatto e scambio per aumentare la porosità della nostre frontiere. Nel mio diario di bordo custodisco occhi, parole, luoghi, abbracci, albe e tramonti che impercettibilmente hanno dato direzione ad un cammino; un cammino che parte dalla valle con i laboratorio di Responsabilità, Ecclesialità e Fraternità, come fondamenti necessari ad affrontare una salita impervia; come pellegrini ci siamo incamminati verso la cima alla scoperta di Montecalvo Irpino e del culto di San Pompilio Maria Pirotti e del Santuario della Mamma Bella dell’Abbondanza, dove ho fatto esperienza della grandezza e del mistero della fede, così come quest’ ultima custodisce nella sua pupilla un teschio, simbolo della provvidenziale relazione con San Pompilio, che supera le frontiere del tempo e dello spazio; come il falco pigro, abbiamo sprigionato il nostro potenziale e spiccato il volo, solo quando, attraverso l’ascolto dell’altro nei gruppi misti di conversazione spirituale, abbiamo avuto il coraggio di lasciare il ramo al quale eravamo ancorati.
Come ogni pellegrino alla fine della scalata, ci siamo goduti le stelle: la veglia notturna ha sigillato ogni ferita con le esperienze raccolte e ne ha fatto cura; nelle costellazioni che ho cercato al buio per ricongiungere ogni stella ho riconosciuto le mappa dei segni impressi sulla pelle di chi ha il coraggio di attraversare le frontiere e restarci il tempo necessario per cambiare se stesso. È vero “tu non devi metterci nulla tranne un po’ di disponibilità a vedere.” A vedere che ogni confine tracciato è uno specchio che ci restituisce soltanto le nostre verità, come un eco solitario delle nostre ragioni che ci destina a restare prigionieri nel nostro sepolcro. A vedere che ogni frontiera è un confine che si è lasciato attraversare, come un vetro che lascia spazio alla visione dell’altro, destinato come noi a condividere questa terra di mezzo. A vedere che il coraggio di sostare in frontiera è la condizione necessaria per dare dignità ad ogni ferita e nome alle cicatrici, perché in essere risiede la porosità della nostra anima. A vedere soprattutto che nessuno si salva da solo e la relazione resta l’unico vessillo armato da schierare al confine, lasciando a Dio, attraverso le mani dell’altro, la possibilità di tagliare i rami ai quali siamo abbarbicati e farci spiccare il volo, liberare il sepolcro dalle pietre tombali delle nostre paure e insicurezze e lasciarci avvolgere dal profumo di una nuova consapevolezza: che rinasce ogni volta chi si lascia toccare dall’altro.
Monica Napolitano, Parrocchia Maria S.S. della Stella di Nola