Per la formazione che molti di noi abbiamo ricevuto sin da piccoli, è del tutto logico e “normale” tenere insieme varie dimensioni: famiglia, lavoro, servizio, città… Perció restiamo spiazzati e amareggiati quando un’altra persona, invitata a un incontro o sollecitata alla collaborazione per un’attività che a noi sembra bella, ci risponde “non ho tempo”.
La verità è che il modo in cui noi “praticanti” concepiamo e organizziamo il tempo è profondamente diverso dal modo in cui gli adulti in genere organizzano e concepiscono il proprio tempo. Ciò che per la “gente di Chiesa” è scontato, per il mondo non lo è affatto.
Alcune grandi trasformazioni hanno modificato il rapporto tra l’adulto e il tempo:
– la trasformazione del lavoro; il lavoro non è più una linea retta ma una curva con picchi altissimi e bassissimi; ne deriva un sostanziale cambiamento di approccio al tempo libero, al tempo di cura, alla domenica. C’è, obiettivamente, “meno tempo” rispetto all’organizzazione sociale degli anni ’70 e 80 in cui una campana indicava l’inizio della giornata e una sirena della fabbrica indicava la fine del tempo lavorativo.
– la trasformazione tecnologica, che ha trasformato il senso e la necessità delle relazioni interpersonali ma anche il senso e la necessità della formazione, dal momento in cui ciò che voglio sapere è a portata di click.
– la trasformazione dei tempi familiari, ridotti in quantità e con pochi strumenti per aumentarne la qualità. Una conseguenza pratica, concreta, è che la semplice prospettiva di un impegno costante in un cammino di fede fa spaventare se non scappare.
Se abbiamo dentro un’inquietudine evangelizzatrice, dobbiamo proprio partire dal tempo, dalla domanda “sappiamo riscrivere la proposta associativa per gli adulti intorno ai tempi della vita reale?”. Sappiamo farlo tenendo fede al Dna dell’associazione ma sapendo cambiare, dove necessario, forme e modi?
Nei fatti, come prima cosa dobbiamo imparare a distinguere il Dna dell’associazione, il patrimonio genetico, dalla forma. Il Dna non deve essere MAI modificato (centralità della persona, relazioni, bene comune, diocesanità/ecclesialità, popolarità/parrocchia, formazione ordinaria e globale, vocazione educativa…). Invece le forme non sono affatto un totem, possono essere trasformate. A volte confondiamo la forma con la sostanza, il “modo” in cui si fa Ac con ciò che l’Ac è. Si può essere adulti di Ac strutturando i cammini e le proposte in modi diversi, purché alla base ci sia una riflessione seria che parte dalla vita reale delle persone che incontriamo e vogliamo incontrare.
ALCUNE SFIDE
Innanzitutto dobbiamo accettare la sfida degli adulti che, motivati dall’esperienza genitoriale, vogliono ricominciare un cammino di fede. Accettare di trasformare linguaggi, codici, rigidità di approcci, metodi e schemi pur di accogliere una persona in più. E una volta accolta, farci provocare da una domanda di vita interiore ancora non “educata” in cui possono influire emotività, devozionismo, bisogni soggettivi, enfasi del fare ecc ecc. Anziché giudicare, dovremmo saper ridire in modo più semplice e chiaro cosa l’Ac intende per preghiera, formazione, condivisione, testimonianza, azione, carità. Riscoprendo con gli adulti la pazienza e i tempi lunghi che abbiamo con le nuove generazioni. Pensate solo all’aspetto linguistico. Noi usiamo nei nostri incontri la parola “pastorale” come fosse pane quotidiano, lessico condiviso. Provate a usare questa parola, “pastorale”, in qualsiasi discorso con uomini e donne “non di Chiesa”. Davvero c’è un rischio-incomunicabilità tra chi ha fatto un lungo cammino e chi riparte, ma non possiamo certo accettarlo come un fatto immutabile e irreversibile. Sarebbe una sconfitta e porterebbe a una schizofrenia di proposte formative che dividono anziché unire.
Dobbiamo accettare la sfida dei professionisti, dei competenti, persone che hanno conoscenze da donarci ma hanno anche bisogno di itinerari snelli di approfondimento culturale. Dobbiamo ammettere che le nostre comunità si stanno impoverendo dal punto di vista culturale, e uno dei motivi principali è la mancanza di dialogo con persone e realtà che, prima di accogliere un cammino di fede, potrebbe accettare un dialogo sulla vita e la società.
Dobbiamo accettare la sfida delle giovani coppie in generale, aiutandole a diventare sposi e genitori “sul campo”. In modo speciale, dobbiamo essere compagni leali di quei “nuovo adulti” che da giovani hanno dato un grande contributo educativo all’associazione e alla Chiesa. Nessuno abbia occasione di dire “quando non servivo piú mi hanno abbandonato”. Purtroppo è accaduto, accade.
Dal punto di vista organizzativo, nei nostri discorsi tutto ciò si traduce in una domanda semplicistica: “facciamo un solo gruppo adulti o più gruppi?”. Tutto quanto detto ci porta a discernere caso per caso, situazione per situazione. Va evitato un approccio ideologico a questioni di forma, però. Se c’è un solo gruppo che accoglie più generazioni, esso dovrà farsi carico di essere multiforme e flessibile – non monocorde – al suo interno. Se si opta per piú gruppi con cadenze e destinatari diversi, occorrerà lavorare seriamente per restituire una dimensione unitaria ai diversi percorsi, e soprattutto bisognerà lavorare perché nessuno di essi diventi esclusivo e settoriale o chiuso ad altri che vogliano aggregarsi. Non è da escludere, inoltre, un’altra forma ancora: un gruppo adulti intergenerazionale, “tradizionale”, che tiene fede al proprio cammino ordinario ma che, come servizio alla comunità, offre momenti di apertura, convivialità, riflessione aperti a tutti gli adulti e a tutte le famiglie, senza distinzioni e senza vincoli “eccessivi”. Con la porta spalancata per chi liberamente vuole fare uno scatto in avanti di costanza e volontà.
Più in generale, la proverbiale “centralità della persona” da cui parte la proposta formativa ed educativa dell’Ac deve essere esplicitata come una centralità della persona e quindi di tutti i mondi vitali ad essa riferita (la famiglia, la scuola, il lavoro, le amicizie, lo sport…). Ciò vale per i più giovani e i bambini ma vale anche per gli adulti, ovviamente. Ma forse, per concludere, la sfida piú grande per l’associazione è convincere i propri adulti a non sentirsi solo e soltanto “riserve educative” per le nuove generazioni, ma primariamente umili compagni di strada dei propri coetanei, dei papà e delle mamme che si incontrano fuori scuola al mattino, al centro sportivo dei figli, al catechismo. L’evangelizzazione tra adulti è difficile ma cruciale, non solo per l’Ac.
Marco Iasevoli