Chi ama spera

Dall’imagine tesa
Vigilo l’istante
Con imminenza di attesa –
E non aspetto nessuno:
Nell’ombra accesa
Spio il campanello
Che impercettibile spande
Un polline di suono –
E non aspetto nessuno:
Fra quattro mura
Stupefatte di spazio
Più che un deserto
Non aspetto nessuno:
Ma deve venire,
Verrà, se resisto
A sbocciare non visto,
Verrà d’improvviso,
Quando meno l’avverto:
Verrà quasi perdono
Di quanto fa morire,
Verrà a farmi certo
Del suo e mio tesoro,
Verrà come ristoro
Delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
Il suo bisbiglio
(Clemente Rebora
Dall’imagine tesa, 1920)

Carissimi amici, credenti e non credenti,

dinanzi alla tomba vuota del Signore, desidero condividere con voi alcune domande. È ancora possibile sperare? C’è una speranza cui affidarci? Ma, soprattutto, è sensato, razionale, intelligente coltivare una speranza? E ancora: a cosa serve sperare? Quale funzione assolve la speranza nella nostra società? È questa ancora una parola densa di significati autentici? O è piuttosto l’ombrello malconcio sotto cui rifugiarci quando la vita ci affanna e delude? La parola speranza, amici, non rischia in fondo di fare rima con illusione, e dunque essere la premessa della disillusione?

Il poeta Rebora, in cerca e in attesa come noi di segni concreti che diano corpo alla speranza, non ode frastuoni interiori, né avvista fatti eclatanti. Intuisce un bisbiglio. Il bisbiglio è un suono dolce, confidenziale, che non può essere avvertito senza una totale attenzione, senza porgere l’orecchio. Che non può essere compreso senza un intenso esercizio di ascolto.

È questo un buon consiglio che possiamo fare nostro: per nutrire e nutrirsi di vera speranza, bisogna lasciare il frastuono. Ergersi per un istante dai problemi, personali e sociali. E ascoltare. Ascoltare il nostro cuore, luogo dei desideri più profondi. Ascoltare il cuore dei nostri fratelli, luogo di bisogni veri e silenziosi. L’ascolto del nostro cuore, e del cuore dei nostri fratelli, rivela la notizia più semplice e rivoluzionaria: abbiamo bisogno di ricevere e dare amore. Amici, credenti e non credenti, riscoprirci creature capace di dare e ricevere amore ci fa cambiare lo sguardo sulla nostra vita, sulla vita degli altri, sulla vita comunitaria.

Riscoprire la natura amorevole dell’uomo ci ridona la vera speranza. La non-speranza di oggi, la disperazione, non è solo un fattore socio-economico. La speranza latita perché latita la fiducia nella capacità dell’uomo di amare. La disperazione non è figlia della crisi: ha piuttosto matrice nella diffusa sensazione che l’uomo non sappia più esser fedele alla sua natura amorevole e relazionale, e abbia preferito caratterizzarsi nelle categorie del possesso, dell’avere, della moneta. Categorie senz’anima, senza amore, disperate.

E invece, è possibile sperare se si riparte dall’amore. L’uomo è ancora la creatura prediletta di Dio. E per questo motivo ne riflette l’infinita passione. Non solo siamo capaci di un generico affetto verso l’altro. Siamo capaci anche di dedizione, di cura, di dono, di sacrificio. Queste categorie relazionali non hanno il fine di “confortare”, ma, detto con chiarezza, salvano, ci tirano fuori dal buio, portano luce. La nostra speranza è nell’uomo che il Signore ha voluto simile a sé.

Sperare è un’azione impregnata di senso solo se coincide con l’amare. Chi ama spera. Scommette su un’altra persona. Gli concede un’opportunità grande. Sperare significa credere nell’uomo, e dunque adoperarsi per lui. Speranza e amore camminano insieme. Una speranza senza amore è vuoto fatalismo. Un amore che non spera è breve consolazione.

Se è vero, ed è vero, che sperare coincide con l’amare, allora è più semplice per noi smascherare e rigettare le false speranze. Quelle speranze senz’anima, rumorose, indiscrete, pesanti, che squillano acute come il battito della moneta sul tavolo,ma non ci cambiano la vita. In nessun modo.

La speranza è invece un bisbiglio. Tutti noi, credenti e non credenti, conosciamo un bisbiglio che ha avuto la forza di cambiare il mondo: le ultime parole di Gesù sulla croce. Parole di misericordia. Parole rivolte verso l’alto e verso l’eterno. Parole che guardano al domani dell’uomo. Corona di una vita pienamente umana fatta di amicizia autentica, sete di giustizia, profondissima razionalità, pienezza di senso, gioia, disponibilità a dare tutto per l’altro.

Gesù viene a ricordarci a cosa è chiamato ciascuno di noi: rispondere al più grande sogno di Dio, che l’uomo sia davvero uomo. La Sua morte e resurrezione non è l’epilogo incomprensibile di un’esistenza oltre le righe, condita sulla coda da un tocco di mistero e irrazionalità. Gesù, amando davvero, amando fino in fondo, amando sino alla fine, amando nel sacrificio di sé stesso, ha mostrato all’uomo che l’amore, solo l’amore, ha l’ultima parola, travalica ogni confine fisico e biologico, proietta la persona in spazi e tempi infiniti, converte dolori e debolezze.Rende felici.

Realizza la speranza.

La Pasqua del Signore, carissimi amici, ci insegni ad amare come Gesù.

Chiama come Lui è segno di vera Speranza per tutti gli uomini, per il nostro tempo, per i nostri territori.

Padre Beniamino Depalma

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