Il “Male”: perché?

La storia dell’uomo non è soltanto, purtroppo, storia d’amore, di beneficio, di pace. Essa è, forse sopratutto, storia di orrore, sopraffazione, violenza inaudita, sterminio, egoismo, cinismo, perversione folle. Tra ciò che il mondo potrebbe essere, almeno nei nostri buoni propositi e desideri, e ciò che il mondo e la storia sono e sono stati c’è un abisso, una voragine, un salto nero: c’è la presenza inquietante del male. Alcune cose nascono con l’uomo, e con l’uomo è nata la riflessione sul male. Da dove viene? Chi l’ha portato tra noi? Perchè non riusciamo a liberarcene? Religioni di ogni sorta, filosofie d’oriente e d’occidente, uomini d’ogni tempo si sono posti questi quesiti.

Fare una carrellata delle varie risposte che la storia ci lascia in eredità e pretendere di essere esaustivi, in questo intervento, sarebbe impossibile, oltremodo faticoso (per il lettore e per chi scrive), forse inutile. Ciò che dirò perciò è solo qualcosa di generale, non completo e non dettagliato…è bene chiarirlo. Cerchiamo di ragionare per “zone”: verso quali direzioni (zone, appunto) fino ad ora l’uomo ha mosso il pensiero per darsi una risposta convincente? Quattro possibili soluzioni: 1-il male è una forza caotica che si oppone alla creazione; 2-il male rappresenta il tragico e inevitabile destino dell’uomo; 3-il male ha origine da una caduta in disgrazia nei confronti del divino.

La prima posizione è tipica, per quel che ne sappiamo, delle prime religioni monoteiste: esistono due principi, il Bene (Dio) e il Caos (il Male), che si combattono e si fronteggiano. Le forze del Caos sono nemiche della creazione e introducono in essa il disordine, la distruzione delle forme a questa impresse da Dio, e con essa la sofferenza e il male. Un’eco flebile di tale concezione, pur in mezzo a decisive differenze, si trova anche nel racconto della creazione ai capitoli 1 e 2 della Genesi, laddove Dio è Colui che dà ordine agli elementi dopo averli creati dal nulla, pone dei limiti precisi al buio e alle acque minacciose degli abissi. E’ il Pensiero o Ragione che ordina.

La seconda è la posizione che possiamo rinvenire nel mondo greco per il quale, pur nella diversità delle voci e dei pensatori, l’esistenza ha una tonalità tragica ineliminabile. Il ciclo cosmico ruota incessantemente e la sofferenza e il male non sono degli incidenti di percorso, ma fanno parte del circolo della natura che perennemente si muove: l’uomo esce dal nulla, entra a far parte del ciclo, ritorna nel nulla da dove è venuto. E’ un ente a cui è stato tolto, per il breve spazio della sua vita, il “ni” di ni-ente. L’unica via d’uscita è la ragione, la conoscenza: sapere come vanno le cose insomma, conoscere la legge che regola il ciclo cosmico del quale facciamo parte, è fonte di consolazione e conoscenza. La contemplazione filosofica della verità libera dall’angoscia, non perché elimina il male ma perché ne svela la posizione all’interno del ciclo dell’universo (il primo pensatore che nella modernità lascerà la concezione cristiana del male e ritornerà a quella greca qui ora esposta sarà l’olandese Baruch Spinoza). Per quanto riguarda il male morale, vale a dire quello compiuto dall’uomo con le sue azioni particolari, anche qui, l’unica via d’uscita è il pensiero: per evitare il male bisogna conoscere ciò che è bene fare. La riflessione sulla volontà è lasciata per lo più sullo sfondo.

Il terzo punto invece, rispecchia la mentalità biblica. L’esperienza fondamentale attorno a cui ruota la religiosità ebraica è quella dell’Esodo, e qui il male non è mai visto in una prospettiva cosmica né attribuito a forze demoniche. Il male consiste nella condizione di schiavitù in cui gli Egiziani hanno ridotto gli Israeliti e da cui questi non hanno la forza di liberarsi. A questo punto entra in scena Jahvè il quale, sensibile alle sofferenze del suo popolo, invia un uomo di nome Mosè perché lo faccia uscire dall’Egitto. Questo racconto contiene in sintesi gli elementi essenziali della visione biblica del mondo. La vita, e ciò è innegabile, è segnata dalla sofferenza. Questa però non ha cause naturali ma storiche, e cioè la volontà oppressiva dell’uomo. Jahvè non appare indifferente all’infelicità del popolo oppresso: chiama Mosè a collaborare a quest’opera. E promette non la salvezza dell’anima dalla prigione corporea, ai pochi capaci di elevarsi alla contemplazione filosofica, ma una terra dove tutti possano vivere con dignità. La malvagità del genere umano deriva da una rottura della sua relazione col Creatore, fonte di bene, che ne inclina la volontà verso il male (ciò che nella dogmatica cattolica è rubricato sotto il nome di peccato originale); esso è dunque una de-ficienza, un allontanarsi dal Bene e dall’Essere che è Dio. Per questo Sant’Agostino affermerà che il male “non esiste”, è non-essere, mancanza, assenza di bene. Ma l’esistenza non è tragica (come per i greci), senza rimedio cioè: Jahvè si piega sull’uomo per aiutarlo, affinché riconosca il male, si penta e viva. Pur non tacendo la drammaticità della condizione umana, la cultura giudaica ci dice che esiste una via d’uscita per il ritorno alla felicità dell’Eden, e questa consiste nell’accettare l’alleanza che Dio propone al popolo ebraico.

Lo ripeto, la completezza su tale tema in così poco spazio sarebbe impossibile. Queste sono alcune linee che il pensiero e la cultura umane hanno elaborato attorno al problema del male e del suo posto nel mondo. Tutto il pensiero occidentale sul male, da Platone a Nietzsche passando per Kant o Cartesio, pur nella diversità delle singole posizioni non sempre assimilabili in discorsi generali, si è mosso, possiamo affermarlo con buona approssimazione, all’interno di questi schemi.

Ma dopo questa panoramica sulle varie concezioni del male, cosa ci resta? Cosa possiamo farcene di una ricognizione di ciò che è stato pensato, quand’anche in maniera rigorosa e precisa? Forse un possibile inizio di risposta può venirci se ascoltiamo il pensiero di Hanna Arendt, giornalista e filosofa, che per il suo lavoro si è interessata molto del genocidio degli ebrei durante la II guerra mondiale. Genocidio, appunto. Questo termine è stato coniato nel ‘900 appositamente per riferirsi allo sterminio perpetrato dal regime nazista, dopo il quale il “male” non è stato più lo stesso…occupandosi di tale vicenda, nel suo dossier sul processo Eichmann, funzionario del Terzo Reich, la Arendt formula la celebre frase “la banalità del male” che ben enuclea il suo pensiero: era impossibile, riflette la filosofa, la perpetrazione di tale genocidio solo ad opera di “geni maligni” o persone incarnanti “il male assoluto”, “demoniaco”. Per organizzare una così imponente macchina di morte, era necessaria la “collaborazione” di comuni individui, semplici e piccoli funzionari appunto, che hanno prestato la loro vita al grande ingranaggio di sterminio della macchina nazionalsocialista svolgendo i compiti più semplici e invisibili, ma pur sempre addentro al “corpo” politico-amministrativo del regime hitleriano. Per questa categoria di persone, l’ubbidienza acritica e pavida ai dettami del regime era l’unico comandamento etico al quale rispondere. Le loro “banali” vite, le loro comuni mansioni, hanno contribuito alla eliminazione di milioni di esistenze. L’orrore del totalitarismo si rivela completamente banale: semplici, comunissimi omini, che ogni mattina timbrano il cartellino e svolgono il loro lavoro per il regime, senza pensare autonomamente, tenendo in nessuna considerazione le conseguenze del loro tiepido (nè caldo nè freddo) agire quotidiano.

Quale insegnamento trarre dunque dalle considerazioni della Arendt? La acriticità, la mancanza di coraggio nel pensare autonomamente, arditamente, di ergersi al di sopra del “si dice”, anche al di sopra dei “valori condivisi” magari stancamente e abitudinariamente, l’assenza di coraggio di osare l’uscita da se stessi e dalla banale mediocrità, sembra incredibile, ma può costare vite umane, democrazia, libertà. L’inferno dei lager, appunto.

Alfonso Lanzieri

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