Obama. Sono state le sue elezioni. Il mondo ha celebrato il suo trionfo.
Fanfara in sottofondo per la retorica d’occasione 1: “si rompe un muro, il primo nero alla Casa bianca”; “gli Usa hanno dato lezione di democrazia”; “McCain ha perso con onore, ha fatto i suoi sinceri complimenti a Obama, segno che il patriottismo Usa unisce, e non divide”.
Fanfara in sottofondo per la retorica d’occasione 2: “gli americani hanno creduto al sogno del cambiamento, e ora attendono il riscontro nella vita di tutti i giorni: mutui, tasse, scuola, sanità”; “più della politica estera è contata la congiuntura economica”.
Se le elezioni americane potevano essere l’occasione per conoscere meglio gli Usa, abbiamo assistito invece, sui nostri media, allo sfoggio della più ripetitiva tra le ondate verbali. Così, se ci fate caso, il popolo americano, che solo due mesi fa era l’arrogante guerrafondaio globale, ora è diventato l’avanguardia di un cambiamento culturale epocale. Possibile? Certo che no! Così come noi non ci stiamo ad essere identificati all’estero con la nostra classe dirigente, allo stesso modo possiamo immaginare che il popolo americano
sia qualcosa di più complesso e “normale” rispetto a ciò che ci è stato detto in questi giorni, in cui l’aspetto emotivo e simbolico è stato notevolmente sopravvalutato.
Dunque, a mio avviso, dobbiamo normalizzare: gli americani hanno scelto tra due uomini (non tra un bianco e un nero), tra due programmi, tra due team, tra due modelli comunicativi (questo conta, certo…), tra due risposte alle questioni avvertite come più urgenti. Poco più o poco meno, è quello che accade in Italia, Francia, Inghilterra…
Men che mai condivisibile è l’osanna alla democrazia americana. L’altro ieri era un istituto malato e contaminato dalle lobby. Oggi è il luogo delle nuove passioni globali. Possibile? Certo che no! La democrazia americana è… la democrazia americana, così come si è venuta configurando storicamente, con gli anticorpi che ha saputo darsi e quelli che non è riuscita a darsi. E tra i suoi maggiori pregi ce n’è uno di cui proprio abbiamo nostalgia: in sede decisionale prevale il pragmatismo. Dovremmo evitare di voler leggere ogni fatto, ogni avvenimento, sotto la luce temporanea degli slogan e dei simboli facili da memorizzare. Vi invito di cuore a leggere due rarissime voci fuori dal coro, il solito Enzo Bianchi (http://www.partitodemocratico.it/gw/producer/dettaglio.aspx?id_doc=63541 ) e Lucia Annunziata (http://www.lastampa.it/Dossier/elezioniusa08/elezioniusa_girata.asp?ID_blog=202&ID_articolo=819&ID_sezione=425&sezione= ), entrambi su La stampa.
Infine, se proprio vogliamo cogliere qualche simbolo da portarci rassicurati a letto, allora ne scelgo uno soltanto: Obama è ampiamente più giovane di McCain, e ha vinto nonostante la campagna del repubblicano sia stata a lungo improntata sull’asse esperienza/inesperienza. Sarà un bene, sarà un male…
anche questo è un esercizio futile: la politica è pur sempre opera condivisa.
Marco Iasevoli