Qualche sera fa, mi è capitato di assistere ad un momento di sensibilizzazione sulla donazione degli organi; gli invitati a tale evento hanno sottolineato più volte che, prima di effettuare il trapianto, viene accuratamente accertata la morte cerebrale del donatore. E’ infatti questo il criterio scientifico che segna oggi il confine tra la vita e la morte di un individuo.
Ma su tale criterio è stata mossa qualche obiezione da un articolo comparso su “L’Osservatore Romano” la scorsa settimana. Lucetta Scaraffia, membro del Comitato nazionale di bioetica e vice presidente dell’Associazione “Scienza e vita”, autrice di tale articolo, ha sollevato dubbi sul fatto che la morte cerebrale sia sufficiente per decretare la morte di una persona, così come fu stabilito quarant’anni fa dal Rapporto di Harvard. Decidere se un individuo abbia cessato di vivere sulla base di un encefalogramma piatto, mentre il suo organismo è mantenuto in vita tramite respirazione artificiale, argomenta la Scaraffia, significa identificare la persona con le sole attività cerebrali e ciò si scontra con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica.
In risposta all’Osservatore Romano si sono levate molte voci dal mondo della medicina, che hanno ribadito l’affidabilità del protocollo attualmente usato per stabilire la fine della vita. Lo stesso Vaticano ha precisato che quella della Scaraffia è solo un’opinione personale, seppur esposta sul giornale della Santa Sede .
Tale articolo ha insomma riacceso il dibattito, ben lontano dall’essere estinto, sul labile confine tra vita e morte, e su come la scienza attualmente tuteli la vita. Ma cosa significa “tutelare la vita”? Tenere acceso un macchinario che consente la sopravvivenza di un corpo umano, magari anche per anni, senza che la persona riprenda mai più coscienza, significa tutelare la vita, seppure in una sua estrema condizione?
Se simili incertezze sullo staccare la spina sorgono in presenza di una accertata morte cerebrale, a maggior ragione il dibattito medico-etico-giuridico diventa infuocato nel momento in cui si considerano pazienti in condizioni disperate ma vivi, i quali, direttamente o tramite parenti, chiedono la sospensione del trattamento terapeutico. Cosa fare in questi casi? Acconsentire a tali richieste, nel rispetto del libero arbitrio di ciascuno, o opporvisi, in difesa della vita in ogni sua forma?
Proprio in questi ultimi giorni si è avuto un ulteriore sviluppo della vicenda Englaro, la donna in stato vegetativo dal 1992: le strutture sanitarie lombarde si sono rifiutate di eseguire quanto stabilito dalla sentenza della Corte d’Appello di Milano dello scorso luglio, ovvero di procedere alla sospensione delle cure per Eluana, dato che “in tali strutture deve essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone”.
E sempre più urgente diventa l’esigenza di trovare risposte a queste domande.
Anna Giamundo